Racconto 3 (Il punto necessario)

“a M.D. per la luce che ha tenuto accesa in me senza saperlo”

La verità – dissi a mio padre – è che mi pesa la vita. Rispondere alle domande dei vecchi, a quelle dei bambini. Cedere il posto sul treno, fare sorrisi controvoglia. Badare agli altri e ricordarli, essere accondiscendente. Alzarmi al mattino per lavorare, essere stanco. Non riuscire ad accettarmi, escludermi consapevolmente. Odiarvi. E poi – aggiunsi – provare vergogna per aver pensato tutto questo.
Lui fece solo un cenno con la testa come a dire “ho capito, punto”. Sprofondato nel suo divano nero era così stranamente simile a un pupazzo a molla che non mi sforzai di replicare.
L'acido gastrico era già risalito per l'esofago e il bruciore sarebbe arrivato di li a poco. “Prendi la vita come capita” mi aveva detto un amico qualche giorno prima. Ora per la rabbia ero in bagno che vomitavo il pranzo. La presi così quella manifestazione di dolore ricorrente che era formata da tanti silenzi e colpi incassati, come se poi tutto sommato valesse la pena essere accondiscendente col fato, se non altro per essere ricordato come un “brav'uomo”. Forse a quello ambivo, essere ricordato. Uno sforzo notevole per sopportare di essere buoni a tutti i costi mentre un male interiore mi rendeva più brutto del necessario. Più mi sforzavo di non deludere nessuno, più ero la delusione di tanti, più diventavo cupo.
C'era qualcosa di nero che era partito dal centro del mio corpo, poco più su dello stomaco, che poco alla volta aveva infettato tutto il resto. Quel nero pesava terribilmente e quando era giunto alla testa avevo avuto l'impressione che una patina fosse scesa sugli occhi non permettendomi più di vedere le cose realmente. Per ovviare a ogni tipo di errore m'era sorta una strana immobilità che poi era diventata paura di agire. “Non sbilanciarsi troppo” in qualche modo era diventato un credo che non mi piaceva ma che m'accompagnava. Mi feci terra bruciata di sentimenti temendo che “sentirli” mi avrebbe costretto a una scelta, a una presa di posizione. Lentamente mi staccai dalle sensazioni che di riflesso il mio corpo produceva e tutto fu sostituito da un profondo e intenso respiro vuoto, imprigionato tra la gola e il cuore.
Ero un microcosmo di stelle spente.
In quel momento così chiaramente freddo, l'unico pensiero andò a lei. Mi aveva sopportato per tanto tempo. Forse ora mi avrebbe aperto di nuovo le braccia in segno di pace. Io fuggivo spesso dalla mia vita, lei si sostituiva senza saperlo al mare. Io ho sempre odiato il mare. Così l'adoravo e la respingevo. Avrei voluto annegare nel suo grembo. Diventare come un figlio riconoscente. Essere per sempre parte di lei e, contemporaneamente, non essere, perché morendo non avrei più sentito il respiro ma avrei respirato per l'ultima volta serenamente sapendo di addormentarmi tra le sue vene.
Uscii di casa con l'immagine di mio padre rassegnato, convinto che niente avrebbe reso la mia esistenza migliore. Telefonai a lei, le dissi “vediamoci”. Il “no” secco dall'altra parte della cornetta mi trapassò d'un colpo come una scarica improvvisa.
Di lei avevo una foto sempre nella tasca della giacca. Su quella foto avevamo riso molto. Lei era piccola piccola e quella sua faccia non l'aveva cambiata nemmeno da grande. Stessi occhi, stesso sorriso. Stessa luce vitale di cui era piena.
A lungo la guardai e riguardai. Piansi come solo i bambini sanno fare. Innocentemente. Senza rabbia o tristezza. Ancora una volta le avrei detto “baciami, ma non troppo forte”. Sarei finito nella sua bocca risucchiato dai miei pensieri. Lei era stanca, forse come tutti quelli che mi stavano vicino, del mio modo di non essere mai da una parte o dall'altre. Io mi guardavo allo specchio e non ero sicuro se fossi io l'originale o se, in qualche maniera, fossi costretto ad imitare le movenze di un perfetto buffone.
Mi lasciai trasportare dalla paura. Ero veramente solo in quel preciso istante. A fronteggiare me stesso c'ero solo io.
Staccò il telefono per evitare che la richiamassi.
Folgorante fu il pensiero d'un palloncino che si agita al vento. Strattonato da un lato e dall'altro non capisce più quale sia la spinta amica e quale quella nemica. Vorrebbe solo volare. Arrivare al limite del suo essere pieno d'aria. Esplodere. Un filo sottile, pensai, non può impedire una così perfetta fine. Si sarebbe detto di quel palloncino che era come tanti altri palloncini. Né più rosso o più tondo, né più grande o più bello. Solo un palloncino. A chi importa mai di un palloncino. L'unico che l'avrebbe rimpianto sarebbe stato il bimbo che lo teneva legato al polso, che aveva instaurato un rapporto con esso. Che, un po' per egoismo e un po' per piacere, s'era affezionato a quello sventolare ondeggiante e continuo. Lui si che avrebbe pianto di quella perdita. A lui non sarebbe importato se il palloncino si fosse sentito più libero, più vivo. A lui sarebbe dispiaciuto di non averlo avuto più vicino.
Fu un messaggio che il caso mi suggerì.
Ci sono quei momenti perfetti, in cui il cuore si riempie per pochi istanti di un equilibrio imprendibile, delicati come i fiocchi di neve che cadono lentamente e, a contatto con la mano che li accoglie, si sciolgono.
Mi incamminai quasi spontaneamente verso il mare. Infondo se non potevo guardare i suoi occhi avrei almeno respirato l'aria marina che mi ricordava il suo odore.
Nel tragitto, che mi parve infinito, ricordai con tristezza le miriadi di volte che del silenzio avevo fatto un'arma. Ricordai le sue piccole mani che mi cingevano i polsi come a dire “sei qui, ci sei veramente, sei vivo!”. Se solo avessi potuto farle provare un attimo del mio terrore al pensiero del mio respiro, forse avrebbe capito veramente quanto necessarie fossero quelle fughe disperate e sole che intraprendevo. Non c'era arrivata mai fino in fondo al nervo scoperto. Non è che non c'avesse provato, è che non le riusciva di vederlo il centro del mio dolore. Ci si avvicinava quanto più poteva, ma niente. Restò notti intere a osservarmi, mi studiò. Cercò di compiacermi in tanti modi. Tenne la luce accesa sapendo che generavo buio. Non si arrese fino a quando non mi arresi io. Allora quella luce flebile, che aveva alimentato, non la vide più nemmeno lei. Fu una battaglia persa la sua, come una lunga passeggiata nel deserto. Ero arido fin dentro il battito del mio cuore, e lei se ne accorse. Con un gesto delicato scivolò via, senza scuotermi troppo per paura che mi rompessi. Sacrificò buona parte della sua gioia per una terra sterile. Io ero quella terra. Mi lasciò che fuori brillava il sole. Un giorno splendente che mi portò a odiarmi. In tutta quella chiarezza non potevo più nascondermi. Ero brutto. Con un raggio che mi trafiggeva il ventre, partorii la creatura mostruosa che ero diventato. Presi a ricercarla spesso, a rincorrerla per vicolo stretti. Lei fuggiva nella realtà, nei miei sogni, nelle mie fantasie. Sostituii tutto con tutto. Mi ritrovai a non cambiare nulla, a ricominciare ogni volta daccapo.
Ricordando tutto questo arrivai sulla spiaggia. L'acqua era limpida, l'aria secca. Il mare mi apparì come una tavola con sopra una tovaglia di raso. Senza posate, bicchieri o altro. Erano anni che non mi bagnavo in quell'acqua salata. Mi tolsi le scarpe senza pensare troppo. Le riposi ordinatamente verso il molo, riparate dalla sabbia, e dentro ci infilai i calzini. Tirai su leggermente i pantaloni. Entrai.
Rivolto verso il paese che s'ergeva sulla collina, diedi le spalle all'orizzonte desolato.
Chiusi gli occhi.
Feci un inchino.


Alla fine di un viaggio, senza nostalgia, bisogna guardarsi indietro e dire “è stato un viaggio”, e dire “addio” come ci si è detti “ciao” la prima volta.