Racconto 3 (Il punto necessario)

“a M.D. per la luce che ha tenuto accesa in me senza saperlo”

La verità – dissi a mio padre – è che mi pesa la vita. Rispondere alle domande dei vecchi, a quelle dei bambini. Cedere il posto sul treno, fare sorrisi controvoglia. Badare agli altri e ricordarli, essere accondiscendente. Alzarmi al mattino per lavorare, essere stanco. Non riuscire ad accettarmi, escludermi consapevolmente. Odiarvi. E poi – aggiunsi – provare vergogna per aver pensato tutto questo.
Lui fece solo un cenno con la testa come a dire “ho capito, punto”. Sprofondato nel suo divano nero era così stranamente simile a un pupazzo a molla che non mi sforzai di replicare.
L'acido gastrico era già risalito per l'esofago e il bruciore sarebbe arrivato di li a poco. “Prendi la vita come capita” mi aveva detto un amico qualche giorno prima. Ora per la rabbia ero in bagno che vomitavo il pranzo. La presi così quella manifestazione di dolore ricorrente che era formata da tanti silenzi e colpi incassati, come se poi tutto sommato valesse la pena essere accondiscendente col fato, se non altro per essere ricordato come un “brav'uomo”. Forse a quello ambivo, essere ricordato. Uno sforzo notevole per sopportare di essere buoni a tutti i costi mentre un male interiore mi rendeva più brutto del necessario. Più mi sforzavo di non deludere nessuno, più ero la delusione di tanti, più diventavo cupo.
C'era qualcosa di nero che era partito dal centro del mio corpo, poco più su dello stomaco, che poco alla volta aveva infettato tutto il resto. Quel nero pesava terribilmente e quando era giunto alla testa avevo avuto l'impressione che una patina fosse scesa sugli occhi non permettendomi più di vedere le cose realmente. Per ovviare a ogni tipo di errore m'era sorta una strana immobilità che poi era diventata paura di agire. “Non sbilanciarsi troppo” in qualche modo era diventato un credo che non mi piaceva ma che m'accompagnava. Mi feci terra bruciata di sentimenti temendo che “sentirli” mi avrebbe costretto a una scelta, a una presa di posizione. Lentamente mi staccai dalle sensazioni che di riflesso il mio corpo produceva e tutto fu sostituito da un profondo e intenso respiro vuoto, imprigionato tra la gola e il cuore.
Ero un microcosmo di stelle spente.
In quel momento così chiaramente freddo, l'unico pensiero andò a lei. Mi aveva sopportato per tanto tempo. Forse ora mi avrebbe aperto di nuovo le braccia in segno di pace. Io fuggivo spesso dalla mia vita, lei si sostituiva senza saperlo al mare. Io ho sempre odiato il mare. Così l'adoravo e la respingevo. Avrei voluto annegare nel suo grembo. Diventare come un figlio riconoscente. Essere per sempre parte di lei e, contemporaneamente, non essere, perché morendo non avrei più sentito il respiro ma avrei respirato per l'ultima volta serenamente sapendo di addormentarmi tra le sue vene.
Uscii di casa con l'immagine di mio padre rassegnato, convinto che niente avrebbe reso la mia esistenza migliore. Telefonai a lei, le dissi “vediamoci”. Il “no” secco dall'altra parte della cornetta mi trapassò d'un colpo come una scarica improvvisa.
Di lei avevo una foto sempre nella tasca della giacca. Su quella foto avevamo riso molto. Lei era piccola piccola e quella sua faccia non l'aveva cambiata nemmeno da grande. Stessi occhi, stesso sorriso. Stessa luce vitale di cui era piena.
A lungo la guardai e riguardai. Piansi come solo i bambini sanno fare. Innocentemente. Senza rabbia o tristezza. Ancora una volta le avrei detto “baciami, ma non troppo forte”. Sarei finito nella sua bocca risucchiato dai miei pensieri. Lei era stanca, forse come tutti quelli che mi stavano vicino, del mio modo di non essere mai da una parte o dall'altre. Io mi guardavo allo specchio e non ero sicuro se fossi io l'originale o se, in qualche maniera, fossi costretto ad imitare le movenze di un perfetto buffone.
Mi lasciai trasportare dalla paura. Ero veramente solo in quel preciso istante. A fronteggiare me stesso c'ero solo io.
Staccò il telefono per evitare che la richiamassi.
Folgorante fu il pensiero d'un palloncino che si agita al vento. Strattonato da un lato e dall'altro non capisce più quale sia la spinta amica e quale quella nemica. Vorrebbe solo volare. Arrivare al limite del suo essere pieno d'aria. Esplodere. Un filo sottile, pensai, non può impedire una così perfetta fine. Si sarebbe detto di quel palloncino che era come tanti altri palloncini. Né più rosso o più tondo, né più grande o più bello. Solo un palloncino. A chi importa mai di un palloncino. L'unico che l'avrebbe rimpianto sarebbe stato il bimbo che lo teneva legato al polso, che aveva instaurato un rapporto con esso. Che, un po' per egoismo e un po' per piacere, s'era affezionato a quello sventolare ondeggiante e continuo. Lui si che avrebbe pianto di quella perdita. A lui non sarebbe importato se il palloncino si fosse sentito più libero, più vivo. A lui sarebbe dispiaciuto di non averlo avuto più vicino.
Fu un messaggio che il caso mi suggerì.
Ci sono quei momenti perfetti, in cui il cuore si riempie per pochi istanti di un equilibrio imprendibile, delicati come i fiocchi di neve che cadono lentamente e, a contatto con la mano che li accoglie, si sciolgono.
Mi incamminai quasi spontaneamente verso il mare. Infondo se non potevo guardare i suoi occhi avrei almeno respirato l'aria marina che mi ricordava il suo odore.
Nel tragitto, che mi parve infinito, ricordai con tristezza le miriadi di volte che del silenzio avevo fatto un'arma. Ricordai le sue piccole mani che mi cingevano i polsi come a dire “sei qui, ci sei veramente, sei vivo!”. Se solo avessi potuto farle provare un attimo del mio terrore al pensiero del mio respiro, forse avrebbe capito veramente quanto necessarie fossero quelle fughe disperate e sole che intraprendevo. Non c'era arrivata mai fino in fondo al nervo scoperto. Non è che non c'avesse provato, è che non le riusciva di vederlo il centro del mio dolore. Ci si avvicinava quanto più poteva, ma niente. Restò notti intere a osservarmi, mi studiò. Cercò di compiacermi in tanti modi. Tenne la luce accesa sapendo che generavo buio. Non si arrese fino a quando non mi arresi io. Allora quella luce flebile, che aveva alimentato, non la vide più nemmeno lei. Fu una battaglia persa la sua, come una lunga passeggiata nel deserto. Ero arido fin dentro il battito del mio cuore, e lei se ne accorse. Con un gesto delicato scivolò via, senza scuotermi troppo per paura che mi rompessi. Sacrificò buona parte della sua gioia per una terra sterile. Io ero quella terra. Mi lasciò che fuori brillava il sole. Un giorno splendente che mi portò a odiarmi. In tutta quella chiarezza non potevo più nascondermi. Ero brutto. Con un raggio che mi trafiggeva il ventre, partorii la creatura mostruosa che ero diventato. Presi a ricercarla spesso, a rincorrerla per vicolo stretti. Lei fuggiva nella realtà, nei miei sogni, nelle mie fantasie. Sostituii tutto con tutto. Mi ritrovai a non cambiare nulla, a ricominciare ogni volta daccapo.
Ricordando tutto questo arrivai sulla spiaggia. L'acqua era limpida, l'aria secca. Il mare mi apparì come una tavola con sopra una tovaglia di raso. Senza posate, bicchieri o altro. Erano anni che non mi bagnavo in quell'acqua salata. Mi tolsi le scarpe senza pensare troppo. Le riposi ordinatamente verso il molo, riparate dalla sabbia, e dentro ci infilai i calzini. Tirai su leggermente i pantaloni. Entrai.
Rivolto verso il paese che s'ergeva sulla collina, diedi le spalle all'orizzonte desolato.
Chiusi gli occhi.
Feci un inchino.


Alla fine di un viaggio, senza nostalgia, bisogna guardarsi indietro e dire “è stato un viaggio”, e dire “addio” come ci si è detti “ciao” la prima volta.  

Racconto 2 (l'oca allegra)

Ho i piedi fradici. Percorro la strada che unisce la scuola elementare che ho frequentato e casa mia. Venticinque anni fa per me voleva dire “ritardo”, solo dopo avrei capito che lo era in tutti i sensi. Due volte al giorno per sei volte la settimana era un rito che facevamo io e mio padre. All'epoca ci separavano l'età e le rispettive prospettive, dove l'altezza dei miei orizzonti era troppo bassa per lui. Punti di vista che non saremmo mai riusciti a livellare, a pareggiare per confrontarci equamente. L'unico silenzio che odiavo era il suo, così solennemente portato, che gli calzava a pennello. Un silenzio che alla sua morte fu solo confermato, un credo radicato che non necessitava di conversione. Eppure una volta ci provò, mi disse che mi avrebbe parlato, che in qualche modo si sarebbe liberato perché con suo figlio avrebbe ristabilito le giuste pendenze. Non andò mai oltre l'incipit, forse perché non se l'era sentita di caricarmi dei suoi affanni, forse perché l'egoismo della parola non gli apparteneva, forse ero io troppo svogliato da decifrare i piccoli discorsi che ci siamo concessi, o forse non ho mai voluto ascoltarlo veramente per paura di un suo tradimento che mi avrebbe dato l'impressione di un uomo sacrificato, ormai troppo oltre per ritendere la corda, e che accettava i nostri volti solo per abitudine mentre sul suo si consumava il dispiacere.
E mentre me ne vado su questa strada mi tornano in mente le sue mani. Mani ruvide date dal lavoro manuale, gonfiate dal freddo e da vene dispettose, che io stringevo a fatica con le mie troppo piccole, che sarebbero rimaste insignificanti vicino alle sue, perché troppo sottili, affusolate, prive delle modifiche del tempo e di quella che risulta essere la traduzione visiva di percorsi accidentati e tortuosi con inciampi, scalate e scivolate violente.
Mio padre se ne andò in preda a un'età di mezzo, con alcune certezze che sapeva solo lui e una lunga lista depennata a forza, rindirizzata ogni volta per non sentirne l'insoddisfazione e cercare di ingannarsi al punto tale da non sentire più nulla. Ricordo la mattina che chiuse gli occhi, di colpo, senza disturbo, quasi si fosse addormentato appena un attimo. Senza dire una parola, nessuna frase ad effetto. Solo un battito di ciglia per non perdersi quel mondo che tanto lo aveva schiacciato ma che è difficile rinnegare anche nella sua puzza, e che si desidera, proprio come fa il bambino con le api di plastica che roteano sulla culla.
Ho finito la passeggiata e rientro a casa. Svuotata di tutto quello che era dei miei genitori. Posta in una zona d'ombra perenne. Tra queste mura travolte da carta da parati fuori luogo con me, con l'interpretazione della mia esistenza, s'è consumata la tragedia della perdita continua e della conseguente crescita di consapevolezza. È tutto giallo qui dentro, tutto caldo, a differenza dell'aria che persevera in questo grande polmone. L'aria è fredda. Di un ghiaccio che permea le fughe delle mattonelle e si estende su chi le attraversa. Qui, appena varcata la soglia, con lo stesso sguardo e la stessa camminata di sempre, riconosco fraternamente ogni odore, di ciò che mi porto appresso, di ciò che mi abita. Ho lasciato che il tempo deprecasse il passaggio di vite amate, odiate, in quel misto di rincorse e abbandoni da chi ci ha insegnato a camminare oltre l'umana predisposizione, imponendoci di mettere le mani avanti nel caso fossimo caduti, pronti ad affrontare il pavimento giocando d'astuzia. Ci preparavano a cadute più grandi e a scontri che, loro malgrado, sapevano gli sarebbero stati rivolti.
Camera mia invece è indifferente come me, e mi urla contro ogni volta che la abito. Sui muri si contano i ritardi che mi sono concesso, foto di amici e amori che hanno trovato posto nel cestino del tempo, dove risiedono la maggior parte dei nostri ricordi. Spetterà ai posteri ripulire la sporcizia accumulata, riporla in barattoli di affetti scaduti, ereditati, e alla fine gettati in cantine claustrofobiche dove, a causa della ridondanza delle esperienze in vita, risentiranno della propria esagerata fattezza. Sulla scrivani una disposizione disordinata di colori e fogli sui quali hanno preso forma pensieri troppo poco timidi per restarsene nel mio cervello. Bisbigli di viaggi, sussurrati alle mie mani per tracciare ponti percorribili solo con l'immaginazione. Strappo tutto, come faccio ogni sera, dopo aver vomitato qualsiasi tipo di ingiuria sul mondo. Non mangio. Troppa insoddisfazione ha le sue conseguenze. Mi stendo sul letto pronto ad arrivare al sonno dopo essere passato per vicoli stretti dove ha luogo la mia battaglia personale, da finestra a finestra, io contro me stesso, credendo nel dolore e cercando la morte ma senza volontà. Ecco allora lanci di pomodori piuttosto che di coltelli così, anche colpito, il sangue non è sangue e la fine posticipata ancora di un giorno.
La notte ha il suo suono inconfondibile di voci isolate e, anche se chiassose, troppo deboli per avere parvenza di quel fluttuare che è la vita cittadina alle quattro del pomeriggio, dove l'intervallo tra un picco massimo e minimo di caos, sembra essere l'amplificazione estrema dei passi delle formiche.
Tutto intorno a me sa di rimanenza di nuovo di una scatola di scarpe. Non una vera puzza ma abbastanza forte da far desiderare di aprire le finestre. E guardo verso la finestra e la mia camera, spenta dall'interno e illuminata dalla strada, è piena di umanità, molto più simile alle altre camere ora. L'orologio muove le sue lancette ogni volta che mi giro a guardarlo e non mi da tregua. Lui va senza inciampi di notte, almeno fino alle tre, poi rallenta, ma alle sei direi che sono passate solo un paio d'ore, e gli occhi mi si fanno pesanti verso le sette dopo una serie infinita di rifiuti alle lusinghe di lenzuola e cuscini che sopportano il mio peso.
Ora sono sveglio e il sole, nato quando io stavo cedendo, ha già percorso metà del suo giro obbligato e io gli do un'occhiata amichevole, per quel suo agire senza una reale motivazione, solo per accontentare un moto che forse odia e che non gli è congeniale, anche lui intrappolato, in gabbia, posto al centro, quando forse avrebbe preferito stare ai margini per scappare di nascosto, senza dare nell'occhio.  

Racconto 1

Avrei potuto essere armonico col mondo. Suonare tutt'uno con questa schifezza. Seguire il direttore senza chiedermi alcunché sui suoi movimenti frenetici di braccia autonome. Semplicemente interpretare i segnali principali per seguitare a stonare in coro, così alla fine non si sarebbe potuto imputare a nessuno l'errore e saremmo stati tutti ugualmente colpevoli ma vivi.

Il prete mi da la sua benedizione con il classico rito dell'estrema unzione e raccomanda a un dio a me estraneo la mia anima, dice che a lui tornano tutte le cose, lo dice con un volto sereno e una voce ferma, e tutto quello che mi viene da pensare è se quando toccherà a lui sarà altrettanto rilassato e convinto. Non lo guardo neppure in faccia, visto che serve più a lui che a me tutta questa buffonata. Io non l'ho chiamato, non l'ha chiamato nessuno per me, ma quello che mi sta difronte aveva necessità di aggrapparsi a qualcosa e la guardia non poteva certo elargire dolcezze, il prete è sembrato a tutti la soluzione migliore. Ora però s'è fatto prendere la mano il tipo, pretende che tutti nella sala d'attesa preghiamo assieme come fratelli. Chi glielo spiega che tra meno di un'ora potrei essere in grado di smontare tutta la sua gigantesca fede grazie ai miei fratelli. Evidentemente nessuno ha il coraggio e a me importa troppo poco per acconsentire o meno. Diciamo una delle più ipocrite lamentele per il padre eterno e finalmente si congeda.
La guardia che ha in custodia il mio dirimpettaio gli fa cenno di alzarsi. Comincia una pantomima infinita. Quello sbraita. Si getta a terra. Implora la vergine Maria. Bestemmia. Chiede perdono, si fa mansueto. Sputa in faccia a una guardia. Tutto questo vede la fine un paio di metri più in là quando la porta della cella si sbarra alle spalle del primo candidato. Qualche altro secondo di show sonoro e poi è come se si fosse rotta la radio di colpo, a nessuno dispiace.
Le guardie che mi fanno compagnia si scambiano parole che non mi sforzo di decifrare. Uno dei due però sentenzia divertito sull'esito della giornata – Oggi gran frittura, eh? – L'altro annuisce e poi lancia un'occhiata a me che lo fisso.
Io qui ci sono finito volontariamente, come quelli che sperano che in una qualsiasi guerra qualcuno li piazzi in prima linea, e le ragioni sono due, o vogliono morire prima di aver sparato o ci credono talmente tanto in quello che stanno facendo che la mania di protagonismo li insegue fino alla morte. In entrambi i casi il finale è lo stesso, ed è quello che spetta a me oggi, tra qualche istante, dopo che il mio ex-dirimpettaio avrà concluso e il sipario sarà calato. Dopo l'applauso compiaciuto della giuria.
E pensare che la mia esistenza procedeva monotona e precisa come quella di tanti altri. Mia madre era molto credente e oggi sarebbe stata contenta della visita del prete, meno per la motivazione. Lei credeva, insieme a mio padre, anche in qualcosa di concreto, che non si fondasse su favolette, ma che fosse frutto di una buona borghesia inculcatale da genitori poco presenti ma correttamente piazzati al gradino giusto della piramide sociale. Io sono venuto su come la maggior parte della popolazione odierna, in questa parte di mondo dove il concetto di libertà è sinonimo di maggioranza e non sempre hanno accezione positiva. “Una gran sensibilità” diceva mio padre a mia madre quando tornava dall'incontro con gli insegnanti. “Nostro figlio è un bambino sensibile!”. Non ho mai capito se lo dicesse a mo' di sfottò o se cercasse di addolcire la verità a mia madre sul fatto che me ne stessi sempre rintanato in un angolo deriso dai più, e che fuggissi a ogni costo i rapporti sociali.

Un giorno, sarà stato di martedì o mercoledì, faccio il solito giro per andare a lavoro. Compro il giornale per l'ufficio. Svolto a destra dalla strada principale. Accelero il passo per evitare un ritardo seccante.
Un gruppo di ragazzini, otto o dieci anni, si azzuffa. Un chiasso infernale che funge da calamita per la mia testa. Mi giro di scatto senza alcuna intenzione di intervenire. Poi vedo tutto. I ragazzini non si picchiano tra di loro, ne picchiano uno solo. Lo sbeffeggiano. Lo strattonano. Gli urlano contro. Con una di quelle bombolette piene di schiuma, simile a quella da barba, lo riempiono fino a farlo diventare una specie di pupazzo di neve. Non si accontentano, esagerano fino all'estremo. Quello non si difende. Non può. I suoi aguzzini non si stancano, gli danno addosso come si trattasse di una cruenta corrida. Cerca di pulirsi gli occhi, rossi. Un misto tra lacrimazione forzata e pianto. Una scena pietosa. Ancora più pietosa quando mi accorgo che il ragazzino “non è normale”, come si usa dire impropriamente quando non si è difronte a degli estranei o a un convegno, quando l'appellativo “diversamente abile” pare a tutti troppo impegnativo.
Rimango come una pietra. Sono in ritardo. Poi mi gira la testa. Attraverso la strada e afferro uno dei bulli da un braccio. Invito tutti a fermarsi, a smetterla. Ma chi ti sente? Alzo la voce, li minaccio di chiamare le guardie. Si staccano dal bambino-pentolaccia. Ho gli occhi sbarrati e la sensazione è quella di stare su una zattera in mare aperto. Uno di quelli che sembra essere il capo mi sferra un calcio, poi incita tutti alla fuga ma non prima di aver riservato al coetaneo un sonoro schiaffo sulla guancia.
Ci ritroviamo come due imbecilli, io e il ragazzino. Mi avvicino ma quello mi manda al diavolo. Lo fa con sincerità, non con rabbia. Aveste visto la goffaggine dei movimenti mentre cercava di liberarsi da tutta quella schiuma che iniziava a sciogliersi, ad appiccicarsi, a insudiciarlo enfatizzando la sua inadeguatezza presunta col mondo.
Lo lascio lì, mentre maledice tutti e urla “figli di puttana”, tirandosi una serie di pugni, come se non ne avesse presi abbastanza. Mi allontano e quello continua. Mi devo tappare le orecchie. Non basta, ci canticchio qualcosa sopra. Sono in ritardo, non so nemmeno di quanto. Mi giro ancora un attimo. Il bambino piange e si dispera, nessuno si ferma, io mi aggrappo alla vetrata di un negozio. Scoppio a piangere anch'io. Nessuno si ferma.

Qualche giorno dopo sono in strada che cammino senza pensieri. L'episodio dei giorni passati fa la sua comparsa quando meno me lo aspetto. Lo tengo a bada e il nodo alla gola che si manifesta come reazione spontanea si scioglie dopo poco. Infondo il mondo gira sempre dalla parte dei più forti, mi dico, e ne ero convinto. Sbagliandomi. Il mondo gira sempre dalla parte dei più numerosi, come mi avrebbe definitivamente insegnato la società di li a poco.
Sono in strada e non penso, cammino solamente. Una signora mi abborda rabbiosa. La vedo partire dall'altra parte della strada che agita una borsa, una di quelle esageratamente grandi che solo in certi posti come questo si possono vedere. Attraversa incurante del traffico ma abbastanza sicura di non volermi perdere di vista. Non la conosco, è la prima cosa che penso, non dice a me! Come un fulmine mi finisce addosso. Urla – Tu! Pezzo di merda – E la gente si gira attirata da questo banditore pubblico – Come ti sei permesso! Mio figlio, l'amore mio. Povero ragazzo! Io ti ammazzo! – Io sono lì che mi godo la scema. Cerco di replicare – Signora io non credo sia la persona che cerca... - Quella squilibrata si calma un attimo, almeno così sembra – Lei l'altro giorno ha afferrato mio figlio per un braccio, l'ha strattonato, minacciato di denunciarlo, e tutto questo perché giocava rumorosamente con i suoi amichetti per strada! Come si è permesso! Lei dovrebbe stare in carcere, o dentro qualche manicomio! - Inutile quanto cerco di spiegarle, che in realtà il figlio non stava giocando. Lei non sente. Ha le orecchie tappate.
Penso di aver proseguito per una decina di minuti senza essere ascoltato, poi un dolore tremendo si estende dalla testa fino all'addome. Come un pugile poco attento finisco a terra. Sbatto la guancia sinistra sull'asfalto maleodorante. Un nuovo dolore mi attraversa la colonna vertebrale. Qualcuno mi sollecita le costole, forse più di uno. Non ho il tempo di rendermi conto e credo che un infarto mi stia facendo un brutto scherzo. Poi la voce di qualcuno che urla, qualcuno che cerca di controbattere. Buio.
All'ospedale un mese dopo mi sveglio da un lungo sonno. Il medico mi illumina gli occhi con una piletta e mi dice – Guardi a destra. Guardi a sinistra – Lo seguo senza la minima volontà di oppormi. Mi fa male tutto. Troppe ore al computer? Il medico deva capire la mia perplessità perché comincia a raccontarmi qualcosa che è avvenuto in questo mesetto di assenza. Il rapido resoconto mi fa sospettare che si tratti del mio datore di lavoro travestito per l'occasione. Poi viene al dunque – Sa chi l'ha spedita qui? Una infuriata matta perché pare che lei abbia picchiato suo figlio. L'ha fatta proprio incazzare quella – Ora ricordo. Sul tavolino a fianco del letto un vaso di fiori della mia ragazza. Un biglietto che mi avverte che non è in città, che mi chiamerà. Che è triste ma che non poteva rimanere qui ora. Che mi chiama appena mi sveglio perché è sicura che mi sveglierò. Sorrido. L'amore non l'ho mai capito veramente. Lei dice che il cuore le batte. Per me questo non è amore, è chimica. L'accontento la maggior parte delle volte, alla fine non avrei motivo per odiarla. Ma l'amore, proprio non so cosa sia. Qualcosa di convenzionale o no, a me non l'hanno spiegato. A me va bene così.
La signora che mi ha ridotto nello stato comatoso aveva architettato tutto, dicono gli agenti. Posso sporgere denuncia perché aveva nella borsa un numero consistente di mattoni. Voleva ammazzarmi e l'avrebbe fatto se non l'avessero fermata dei passanti.
Mi guardo attorno per cercare ispirazione sul da farsi. Ne ricavo solo una finestra aperta dalla quale filtra luce azzurra. Deduco di lasciar perdere tutto e dico agli agenti di non voler sporgere denuncia. I due se ne sbattono altamente, e fanno bene. Con lo stipendio che si intascano ci coprono a stento le spese fisse. Insistere con un infermo richiederebbe un extra che non sarà pagato. Mi salutano e se ne vanno, passo svelto, a mai più rivederci.
Telefono alla mia ragazza. La segreteria dice che non è possibile disturbarla ora. Il messaggio che lascio è solo un “qui tutto bene, rincoglionito, solo e dolorante. Spero di uscire presto. Ti amo.” Non mi dilungo mai al telefono. Odio quelli che ti costringono a chiamate interminabili per renderti partecipe di tutte le disgrazie che sono ingiustamente portati a sopportare. Io ho preso alla lettera il “quello che non vuoi per te, non farlo agli altri” e questo mi può bastare.

Esco dall'ospedale che fuori minaccia di piovere. L'aria è fredda. La luce diffusa. Si estende sulla gente una patina color ambra uniforme. Siamo tutti perfettamente uguali. Un ragazzo canta una frase senza senso che si rincorre. Ha la voce bassa, quasi rotta. Come se avesse un groppo in gola. Penso che se gli dessi dell'acqua canterebbe meglio. La chitarra la tiene bella stretta. Ha paura di perderla, penso. Le dita sono stanchissime, tormentano un paio di note malinconiche. Non so quali, di musica non c'ho mai capito. Dovrei ascoltare meglio. Dovrei fermarmi, ma non ho voglia. Di tutte queste vite che mi passano in fretta vicine, non mi frega niente.
Non sono mai stato un tipo “sensibile” come dicevano a mio padre. Semplicemente non mi è mai importato confondermi nella mischia. Non ho mai capito i discorsi degli altri. Tutti quegli alti e bassi a cui ti costringono per mantenere un rapporto civile con amici e conoscenti e parenti e ogni sorta di essere vivente. Individui fallibile. Come me. La differenza sta tutta nel fatto che io non ho mai predicato un bel niente. Non ho mai cercato di convincere nessuno. Non volevo farlo da bambino, non voglio farlo ora. Ho sempre lasciato credere a quelli con troppa convinzione che fossero riusciti a persuadermi, l'ho fatto senza sforzo, senza reagire. Avrebbe avuto senso dire la propria in mezzo a una schiera di persone che la pensano diversamente ma alla stessa maniera tra di loro? La risposta è no, e io non avevo intenzione di cambiare le regole del gioco. Tutto sommato non ero che il frutto di una notte d'amore di mia madre e di mio padre. Poi borghesemente mascherato con un matrimonio e con un concetto di amore che non era chiaro nemmeno a loro. Orfano, come tanti altri, di un pensiero che non prevedeva l'aborto, che non contemplava la convivenza, che accettava tutto purché non si venisse a sapere, senza eccezioni. Una vita in pubblico ma con un copione che non aveva nulla a che vedere con la realtà, dove anche questa era vista da ognuno come meglio preferiva. Potevo io da solo prendere in mano la società, dire no, urlare più forte di tutti questi essiccati pensatori sotto vuoto? Non avrebbe avuto senso, lo penso ancora.
Prendete per esempio il concetto di bellezza. Una cosa semplice, anche troppo. Ogni epoca storica ha avuto i suoi canoni caratterizzanti di uomini e donne e cani e modi e abiti che venivano presi come modelli per un bene comune, che di comune non aveva niente, ancora meno di bene. Tutto ciò che può essere diffuso, e lo è, non può diventare un modello da raggiungere, altrimenti i più sarebbero convinti che sono già perfetti. Che ogni sorta di miglioramento sarebbe superfluo. Forse il primo teorico del concetto di “migliore” e del conseguente “migliorare”, l'avrà fatto senza tenere conto delle conseguenze. Ingenuo sul fatto che un grasso per costituzione non sarà mai scheletrico, nemmeno se finisse in un campo di concentramento. Alla stessa maniera un magro non riuscirebbe a diventare tanto grasso da essere simbolo di fertilità. Una con un problema ormonale e numerosi effetti sulla peluria potrebbe diventare liscia e glabra con imponenti dosi di pillole dedicate o dolorose sedute dall'estetista. Uomini con ossa geneticamente minute non saranno mai degli armadi viventi nemmeno se vivessero in una palestra e non uscissero mai, concentrati ad allenarsi tutto il tempo. I discorsi sul concetto di bellezza che sento nei bar, quando raramente mi ci fermo, sono dei più inutili e falsi. Uno dice “è bello oggettivamente”. Casomai quello è pure laureato, fa il saputo con gli amici, ma non sa usare le parole. Comunque le usa male, come la società gli ha insegnato. Qualcosa mi disturba quando la schiera di scimmie parla accavallandosi una sull'altra. Mi disturba perché i piccoli mentecatti, intenti a formarsi, lo fanno con gli individui sbagliati. Vengono su tutti con la fissa del cazzo che deve entrare in qualche vagina prontamente calda e appetibile. Le bimbe quasi donne non si sforzano nemmeno loro. Dopo tanti anni rinchiuse nelle faccende di casa, l'unica via di uscita sta nella più totale degradazione mentale. Quella fisica è solo una conseguenza. Mandrie di futuri direttori di banca, di presidenti, di ogni sorta di impiego che corrono verso vetrine e centri estetici e televisori e porcate a non finire. Solo per sentirsi belli e belle. In nome di una normalità che deve essere raggiunta, superata. Il podio non è per tutti ma mio figlio ci arriverà. Questo era lo slogan di una pubblicità che invitava i genitori a inscrivere i propri figli ad una delle più prestigiose scuole private. Come a dire i poveri morti di fame che combattono ogni giorno con problematiche diverse dall'estetica possono e devono morire. O comunque che restino pure. Saranno utilizzati come termine di paragone con l'élite.
La conseguenza peggiore della stupidità umana che non ha il coraggio di dire “soggettivo” ma che pretende che ci sia una certa oggettività in tutto e per tutto, sta nel fatto che i rapporti umani sono sempre stati una farsa tremenda. Il più debole è schiacciato, punto e basta. La risposta non è “aiutiamo il più debole perché abbiamo più risorse di lui”. No. La risposta è “sfruttiamolo, tanto più di questo non potrà fare”. Quando non può essere sfruttato allora va deriso, va sterminato. Se anche tutelato da qualcuno, va isolato. Che diventi la diversità tra migliaia di diversi che però tentano di essere uguali. Un “uguale” bello. Attraente, perché questo è tutto. Come i bulli col ragazzino-pentolaccia. Sapevano che il pensiero comune alla fine gli avrebbe dato ragione, perché il ribrezzo per un gesto simile non esiste. Quei ragazzini sarebbero diventati belli secondo canone. Brutti come tutti, marci da fare schifo, ma con corpi scolpiti. Avrebbero tirato a fare gli stronzi per un sacco di tempo, si sarebbero sposati e sarebbero diventati padri. I loro figli avrebbero fatto lo stesso. Loro non sarebbero stati puniti per quel gesto. Lo sapevano. Qualcuno disposto a investire su di loro ci sarebbe stato. A dire il vero la maggior parte avrebbe investito solo su soggetti come quelli. Il ragazzino tutta schiuma, con gli occhi rossi che non sa comunicare, vorrebbe solo sentirsi parte di questo stramaledetto sistema defecante. Ignaro di quello che significa veramente. Per lui non c'è posto. Non c'è amore oltre quello dei genitori o di qualche volontario in cerca di crediti e di scalate sociali. Non c'è donna che lo reputi bello secondo canone. Il canone non è quello, è l'adone di turno, e il ragazzino non sarà mai adone, nemmeno se pregasse tutti gli idei che ci sono sulla terra. Nemmeno se si sottoponesse a migliaia di chirurgie estetiche. Il sistema l'ha bollato. Non è normale, casomai diversamente abile, ma non abile come “piace a noi”.

Tutto questo lo penso che me ne vado dritto a casa.
Io dico sia stato un caso, ma mi piace pensare che qualcosa doveva portarmi a tutto questo. Io che alla fine non mi ero mai soffermato a riflettere sulle conseguenze delle azioni. Di come un semplice passo sbagliato possa farti sciogliere un laccio di una scarpa e che il tempo di risistemarlo ti faccia perdere il bus, e che cominci a piovere, e che una pensilina in un vicolo diventi il rifugio per molti, e che lì, tra tutta la gente che si ha la maniera di non incontrare, si incontri proprio quella giusta.
Ci penso perché il bulletto con la madre quasi assassina mi è difronte. Di spalle. Sotto il mio sguardo. La pioggia cessa e ci diradiamo in fretta. Ma perché mai lo sto seguendo non lo so dire. Voglio vedere dove abita. Forse. Lo seguo a distanza. Per un sacco di tempo. E se quello un giorno diventasse un criminale? La domanda che non mi aspettavo me la faccio da solo. Mi sconvolge la risposta che mi do. Diventerà sicuramente un criminale. É categorico, senza ombra di dubbio. La mia educazione borghese che ho sempre cercato di schivare ora è più viva che mai. Non ho dubbi, possibile? Il cervello è sicuro come se si trattasse di qualcosa di scientifico, e siccome le teorie sono vere fino a prova contraria, allora cerco la prova. Non arriva. Non c'è. Accelero il passo. Corro. Il ragazzino non si accorge di niente. Lo afferro dal braccio. Gli tappo la bocca. È una sensazione strana. Fa resistenza. Ma io sono più forte. Ho più volontà. Stavolta non è più al sicuro nella sua spavalderia. La società mi insegna qualcosa di nuovo. La maggioranza vince e un uomo solo non può nulla. Qui siamo uno contro uno ma il confronto è impari e quindi mi considero in due contro il ragazzino. Come un vigliacco, penso. Ma non posso certo dividermi a metà e ricompormi solo a cose fatte. Penso che con me ci sia il ragazzo-pentolaccia. Questa cosa mi da forza. Premo sul collo fragile dell'insicuro sbeffeggiatore, e lo strangolo. Cade a terra che già non respira più.

Se vi devo dire di aver provato vergogna, di essermi sottratto alle guardie, che poco dopo mi hanno fermato, con insolita meraviglia, negando tutto, mentirei. Non ho provato nulla.
Infondo la società uccide sempre. Il concetto di normalità fa sentire i diversi nel torto, come se quella diversità dipendesse da loro. Molti non reggono la solitudine, il disprezzo che gli viene rivolto, l'insicurezza nei gesti, la malinconia di tutto quello che gli viene negato, e si ammazzano. Morti pulite. Senza assassini. Ma solo perché non si vuole ammettere che gli assassini sono ovunque. Da quello che scrive ingenuamente “ricchioni” sopra al portone di un palazzo del centro, a quello che indossa un credo razziale, al datore di lavoro che chiede in cambio rapporti sessuali per un'assunzione, alla massa di insensibili sfruttatori di più deboli.
Io ho semplicemente fatto quello ho fatto.

Piove fuori, così dicono le guardie. A me la pioggia è sempre piaciuta. Un odore particolare, soprattutto d'estate, dopo un po' che c'è il sole e l'asfalto è abbastanza caldo da cuocerti se ci si fermasse più di cinque minuti per riposare. La pioggia inevitabilmente porta con se un numero variabile di nuvole che tolgono luce e fanno sembrare quasi notte ogni ora del giorno. Una condizione che spinge molti ad essere sempre assonnati, in cerca di qualche appiglio che funga da letto.
L'applauso della giuria risuona prepotentemente in questo carcere abitato solo da pagliacci in fila per l'esibizione, sorvegliati a vista, con una scadenza decisa. Pronti ad alzarsi a comando, a prendersi ogni tipo di colpa per ripulire l'interno di esseri umani più furbi o solamente scemi, che non si espongono per volontà o perché non ne sono capaci.
Avrei potuto continuare a stonare in coro, seguire il direttore, ma forse ho preso la nota giusta, forse ho stonato troppo forte. In ogni caso questo è inaccettabile.