Ho i piedi fradici. Percorro la strada
che unisce la scuola elementare che ho frequentato e casa mia.
Venticinque anni fa per me voleva dire “ritardo”, solo dopo avrei
capito che lo era in tutti i sensi. Due volte al giorno per sei volte
la settimana era un rito che facevamo io e mio padre. All'epoca ci
separavano l'età e le rispettive prospettive, dove l'altezza dei
miei orizzonti era troppo bassa per lui. Punti di vista che non
saremmo mai riusciti a livellare, a pareggiare per confrontarci
equamente. L'unico silenzio che odiavo era il suo, così
solennemente portato, che gli calzava a pennello. Un silenzio che
alla sua morte fu solo confermato, un credo radicato che non
necessitava di conversione. Eppure una volta ci provò, mi disse che
mi avrebbe parlato, che in qualche modo si sarebbe liberato perché
con suo figlio avrebbe ristabilito le giuste pendenze. Non andò mai
oltre l'incipit, forse perché non se l'era sentita di caricarmi dei
suoi affanni, forse perché l'egoismo della parola non gli
apparteneva, forse ero io troppo svogliato da decifrare i piccoli
discorsi che ci siamo concessi, o forse non ho mai voluto ascoltarlo
veramente per paura di un suo tradimento che mi avrebbe dato
l'impressione di un uomo sacrificato, ormai troppo oltre per
ritendere la corda, e che accettava i nostri volti solo per abitudine
mentre sul suo si consumava il dispiacere.
E mentre me ne vado su questa strada mi
tornano in mente le sue mani. Mani ruvide date dal lavoro manuale,
gonfiate dal freddo e da vene dispettose, che io stringevo a fatica
con le mie troppo piccole, che sarebbero rimaste insignificanti
vicino alle sue, perché troppo sottili, affusolate, prive delle
modifiche del tempo e di quella che risulta essere la traduzione
visiva di percorsi accidentati e tortuosi con inciampi, scalate e
scivolate violente.
Mio padre se ne andò in preda a un'età
di mezzo, con alcune certezze che sapeva solo lui e una lunga lista
depennata a forza, rindirizzata ogni volta per non sentirne
l'insoddisfazione e cercare di ingannarsi al punto tale da non
sentire più nulla. Ricordo la mattina che chiuse gli occhi, di
colpo, senza disturbo, quasi si fosse addormentato appena un attimo.
Senza dire una parola, nessuna frase ad effetto. Solo un battito di
ciglia per non perdersi quel mondo che tanto lo aveva schiacciato ma
che è difficile rinnegare anche nella sua puzza, e che si desidera,
proprio come fa il bambino con le api di plastica che roteano sulla
culla.
Ho finito la passeggiata e rientro a
casa. Svuotata di tutto quello che era dei miei genitori. Posta in
una zona d'ombra perenne. Tra queste mura travolte da carta da parati
fuori luogo con me, con l'interpretazione della mia esistenza, s'è
consumata la tragedia della perdita continua e della conseguente
crescita di consapevolezza. È tutto giallo qui dentro, tutto caldo,
a differenza dell'aria che persevera in questo grande polmone. L'aria
è fredda. Di un ghiaccio che permea le fughe delle mattonelle e si
estende su chi le attraversa. Qui, appena varcata la soglia, con lo
stesso sguardo e la stessa camminata di sempre, riconosco
fraternamente ogni odore, di ciò che mi porto appresso, di ciò che
mi abita. Ho lasciato che il tempo deprecasse il passaggio di vite
amate, odiate, in quel misto di rincorse e abbandoni da chi ci ha
insegnato a camminare oltre l'umana predisposizione, imponendoci di
mettere le mani avanti nel caso fossimo caduti, pronti ad affrontare
il pavimento giocando d'astuzia. Ci preparavano a cadute più grandi
e a scontri che, loro malgrado, sapevano gli sarebbero stati rivolti.
Camera mia invece è indifferente come
me, e mi urla contro ogni volta che la abito. Sui muri si contano i
ritardi che mi sono concesso, foto di amici e amori che hanno trovato
posto nel cestino del tempo, dove risiedono la maggior parte dei
nostri ricordi. Spetterà ai posteri ripulire la sporcizia
accumulata, riporla in barattoli di affetti scaduti, ereditati, e
alla fine gettati in cantine claustrofobiche dove, a causa della
ridondanza delle esperienze in vita, risentiranno della propria
esagerata fattezza. Sulla scrivani una disposizione disordinata di
colori e fogli sui quali hanno preso forma pensieri troppo poco
timidi per restarsene nel mio cervello. Bisbigli di viaggi,
sussurrati alle mie mani per tracciare ponti percorribili solo con
l'immaginazione. Strappo tutto, come faccio ogni sera, dopo aver
vomitato qualsiasi tipo di ingiuria sul mondo. Non mangio. Troppa
insoddisfazione ha le sue conseguenze. Mi stendo sul letto pronto ad
arrivare al sonno dopo essere passato per vicoli stretti dove ha
luogo la mia battaglia personale, da finestra a finestra, io contro
me stesso, credendo nel dolore e cercando la morte ma senza volontà.
Ecco allora lanci di pomodori piuttosto che di coltelli così, anche
colpito, il sangue non è sangue e la fine posticipata ancora di un
giorno.
La notte ha il suo suono inconfondibile
di voci isolate e, anche se chiassose, troppo deboli per avere
parvenza di quel fluttuare che è la vita cittadina alle quattro del
pomeriggio, dove l'intervallo tra un picco massimo e minimo di caos,
sembra essere l'amplificazione estrema dei passi delle formiche.
Tutto intorno a me sa di rimanenza di
nuovo di una scatola di scarpe. Non una vera puzza ma abbastanza
forte da far desiderare di aprire le finestre. E guardo verso la
finestra e la mia camera, spenta dall'interno e illuminata dalla
strada, è piena di umanità, molto più simile alle altre camere
ora. L'orologio muove le sue lancette ogni volta che mi giro a
guardarlo e non mi da tregua. Lui va senza inciampi di notte, almeno
fino alle tre, poi rallenta, ma alle sei direi che sono passate solo
un paio d'ore, e gli occhi mi si fanno pesanti verso le sette dopo
una serie infinita di rifiuti alle lusinghe di lenzuola e cuscini che
sopportano il mio peso.
Ora sono sveglio e il sole, nato quando
io stavo cedendo, ha già percorso metà del suo giro obbligato e io
gli do un'occhiata amichevole, per quel suo agire senza una reale
motivazione, solo per accontentare un moto che forse odia e che non
gli è congeniale, anche lui intrappolato, in gabbia, posto al
centro, quando forse avrebbe preferito stare ai margini per scappare
di nascosto, senza dare nell'occhio.