Racconto 2 (l'oca allegra)

Ho i piedi fradici. Percorro la strada che unisce la scuola elementare che ho frequentato e casa mia. Venticinque anni fa per me voleva dire “ritardo”, solo dopo avrei capito che lo era in tutti i sensi. Due volte al giorno per sei volte la settimana era un rito che facevamo io e mio padre. All'epoca ci separavano l'età e le rispettive prospettive, dove l'altezza dei miei orizzonti era troppo bassa per lui. Punti di vista che non saremmo mai riusciti a livellare, a pareggiare per confrontarci equamente. L'unico silenzio che odiavo era il suo, così solennemente portato, che gli calzava a pennello. Un silenzio che alla sua morte fu solo confermato, un credo radicato che non necessitava di conversione. Eppure una volta ci provò, mi disse che mi avrebbe parlato, che in qualche modo si sarebbe liberato perché con suo figlio avrebbe ristabilito le giuste pendenze. Non andò mai oltre l'incipit, forse perché non se l'era sentita di caricarmi dei suoi affanni, forse perché l'egoismo della parola non gli apparteneva, forse ero io troppo svogliato da decifrare i piccoli discorsi che ci siamo concessi, o forse non ho mai voluto ascoltarlo veramente per paura di un suo tradimento che mi avrebbe dato l'impressione di un uomo sacrificato, ormai troppo oltre per ritendere la corda, e che accettava i nostri volti solo per abitudine mentre sul suo si consumava il dispiacere.
E mentre me ne vado su questa strada mi tornano in mente le sue mani. Mani ruvide date dal lavoro manuale, gonfiate dal freddo e da vene dispettose, che io stringevo a fatica con le mie troppo piccole, che sarebbero rimaste insignificanti vicino alle sue, perché troppo sottili, affusolate, prive delle modifiche del tempo e di quella che risulta essere la traduzione visiva di percorsi accidentati e tortuosi con inciampi, scalate e scivolate violente.
Mio padre se ne andò in preda a un'età di mezzo, con alcune certezze che sapeva solo lui e una lunga lista depennata a forza, rindirizzata ogni volta per non sentirne l'insoddisfazione e cercare di ingannarsi al punto tale da non sentire più nulla. Ricordo la mattina che chiuse gli occhi, di colpo, senza disturbo, quasi si fosse addormentato appena un attimo. Senza dire una parola, nessuna frase ad effetto. Solo un battito di ciglia per non perdersi quel mondo che tanto lo aveva schiacciato ma che è difficile rinnegare anche nella sua puzza, e che si desidera, proprio come fa il bambino con le api di plastica che roteano sulla culla.
Ho finito la passeggiata e rientro a casa. Svuotata di tutto quello che era dei miei genitori. Posta in una zona d'ombra perenne. Tra queste mura travolte da carta da parati fuori luogo con me, con l'interpretazione della mia esistenza, s'è consumata la tragedia della perdita continua e della conseguente crescita di consapevolezza. È tutto giallo qui dentro, tutto caldo, a differenza dell'aria che persevera in questo grande polmone. L'aria è fredda. Di un ghiaccio che permea le fughe delle mattonelle e si estende su chi le attraversa. Qui, appena varcata la soglia, con lo stesso sguardo e la stessa camminata di sempre, riconosco fraternamente ogni odore, di ciò che mi porto appresso, di ciò che mi abita. Ho lasciato che il tempo deprecasse il passaggio di vite amate, odiate, in quel misto di rincorse e abbandoni da chi ci ha insegnato a camminare oltre l'umana predisposizione, imponendoci di mettere le mani avanti nel caso fossimo caduti, pronti ad affrontare il pavimento giocando d'astuzia. Ci preparavano a cadute più grandi e a scontri che, loro malgrado, sapevano gli sarebbero stati rivolti.
Camera mia invece è indifferente come me, e mi urla contro ogni volta che la abito. Sui muri si contano i ritardi che mi sono concesso, foto di amici e amori che hanno trovato posto nel cestino del tempo, dove risiedono la maggior parte dei nostri ricordi. Spetterà ai posteri ripulire la sporcizia accumulata, riporla in barattoli di affetti scaduti, ereditati, e alla fine gettati in cantine claustrofobiche dove, a causa della ridondanza delle esperienze in vita, risentiranno della propria esagerata fattezza. Sulla scrivani una disposizione disordinata di colori e fogli sui quali hanno preso forma pensieri troppo poco timidi per restarsene nel mio cervello. Bisbigli di viaggi, sussurrati alle mie mani per tracciare ponti percorribili solo con l'immaginazione. Strappo tutto, come faccio ogni sera, dopo aver vomitato qualsiasi tipo di ingiuria sul mondo. Non mangio. Troppa insoddisfazione ha le sue conseguenze. Mi stendo sul letto pronto ad arrivare al sonno dopo essere passato per vicoli stretti dove ha luogo la mia battaglia personale, da finestra a finestra, io contro me stesso, credendo nel dolore e cercando la morte ma senza volontà. Ecco allora lanci di pomodori piuttosto che di coltelli così, anche colpito, il sangue non è sangue e la fine posticipata ancora di un giorno.
La notte ha il suo suono inconfondibile di voci isolate e, anche se chiassose, troppo deboli per avere parvenza di quel fluttuare che è la vita cittadina alle quattro del pomeriggio, dove l'intervallo tra un picco massimo e minimo di caos, sembra essere l'amplificazione estrema dei passi delle formiche.
Tutto intorno a me sa di rimanenza di nuovo di una scatola di scarpe. Non una vera puzza ma abbastanza forte da far desiderare di aprire le finestre. E guardo verso la finestra e la mia camera, spenta dall'interno e illuminata dalla strada, è piena di umanità, molto più simile alle altre camere ora. L'orologio muove le sue lancette ogni volta che mi giro a guardarlo e non mi da tregua. Lui va senza inciampi di notte, almeno fino alle tre, poi rallenta, ma alle sei direi che sono passate solo un paio d'ore, e gli occhi mi si fanno pesanti verso le sette dopo una serie infinita di rifiuti alle lusinghe di lenzuola e cuscini che sopportano il mio peso.
Ora sono sveglio e il sole, nato quando io stavo cedendo, ha già percorso metà del suo giro obbligato e io gli do un'occhiata amichevole, per quel suo agire senza una reale motivazione, solo per accontentare un moto che forse odia e che non gli è congeniale, anche lui intrappolato, in gabbia, posto al centro, quando forse avrebbe preferito stare ai margini per scappare di nascosto, senza dare nell'occhio.